ROMA – Alessandro Lechner è un tecnico dell’Italgas, ha il sorriso bonario del padre, l’accento romano. Rispetto al papà è alto. E magro: «Se tutti sin da ragazzino lo chiamavano Bombolo, una ragione ci doveva essere», ride lui. «Ha presente la canzone? Era alto così, era largo così, lo chiamavan Bombolo… Eppure c’è stato un periodo nella sua vita in cui era così aitante da tuffarsi nel Tevere da ponte Sant’Angelo. Anche se la fame, a dire la verità, gli è sempre corsa dietro. Quando, finita la guerra, arrivarono gli americani a Roma, a lui e al fratello lanciarono la cioccolata. E il dentifricio. Sentendo l’odore della menta, spalmarono la pasta sul il pane. Finirono al Bambino Gesù. Papà non riuscì a diventare ricco neanche quando da “stracciarolo” divenne attore. È morto a 56 anni, nel 1987, e nel cinema che lo aveva scoperto lavorò solo una decina d’anni».

Bombolo, soprannome affibbiato a Franco Lechner dagli amici del rione Ponte e che un giorno, per caso, diventa nome d’arte accanto a quelli di Oreste Lionello e Pippo Franco sul cartellone del Bagaglino, il Teatro Margherita, tempio dell’avanspettacolo ai tempi della seconda Repubblica. E sulle locandine dei film con Tomas Milian, e in tante commedie anni 80 piene di gag, schiaffoni e lati B. Come W la foca, guest star Lory Del Santo.

Quasi 40 anni che Bombolo non c’è più.
«Sì, ma se lo ricordano ancora in tanti. In famiglia ne siamo così felici… Pensi che il Campidoglio gli intitolerà una strada o forse una piazza. Le pratiche sono già state firmate, siamo in attesa, anche se da un bel po’».
Largo Bombolo, niente male.
“Il fatto è che a papà si vuole ancora bene. Su Facebook c’è il gruppo “Bombolo core de Roma” che ha più di 20 mila iscritti. Ogni anno viene organizzato un raduno. La location cambia ogni volta: l’ultimo, a giugno, l’abbiamo fatto a Marino».
Cosa fate durante i raduni?
«Si mangia, si canta, si balla, si citano le sue battute. Ci si diverte, insomma. Quello che piaceva fare a mio padre, un uomo simpatico, tenero e generoso: a casa era il quarto fratello, finché ha potuto anche mamma Regina è venuta al raduno: è stata la sua vera press agent, come si dice oggi».

La moglie lo incoraggiò a recitare?
«Successe questo. Mamma, controllando le tasche di papà prima di fare il bucato, trovò un biglietto col numero di telefono di Francesco Pingitore e Mario Castellucci. “Chi sono questi?”, chiese. E papà: “Butta, butta via, so’ due che dicono che fanno cinema, e che c’ho la faccia giusta… ma che ne so”. Mia madre di nascosto li chiamò. Tutto partì così».
E come aveva conosciuto Pingitore e Castellucci?
«Alla trattoria di Picchiettino in via di Montegiordano, accanto a casa sua. Oggi si chiama Antica taverna, alle pareti ci sono ancora le foto di papà e degli amici che si improvvisavano attori. Da Picchiettino andava a bere, a chiacchierare, a tarda sera, dopo la chiusura, si univa anche il proprietario, improvvisavano delle scenette, tipo lui che guidava il tram e tutti dietro che salivano uno a uno».
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Con il cinema cominciò pian piano.
«Prima con qualche comparsata, poi le particine. Ma a tal punto anche lui non ci credeva, che per anni continuò a fare il venditore ambulante: “‘Pentole, padelle, piatti bicchieri”. Io lo accompagnavo col carretto. Aveva cominciato a lavorare a 8 anni, faceva il mestiere di suo padre e ancora prima del nonno Ernesto che vendeva in strada mele cotte. Papà era rimasto orfano prestissimo, mia nonna era morta di parto dopo il quarto figlio, il marito la seguì qualche anno dopo. Così, si rimboccò le maniche e lasciò la scuola. A noi invece, con sacrifici incredibili, ci ha fatto studiare: tutti alle elementari dalle suore».
Cosa raccontava di quegli anni in cui aveva fatto la fame?
«Poco. Secondo me il ricordo lo faceva soffrire: però un aneddoto, che sembrava una barzelletta, era un cavallo di battaglia. Diceva che da piccolino lo facevano dormire nel cassetto di un grande comò perché non c’era spazio né letti per tutti. Solo che questo comò stava davanti alla porta del bagno e i fratelli, per passare, aprivano e chiudevano. Una volta se lo dimenticarono chiuso dentro».

Padelle e cinema. Lei era un ragazzino, allora.
«Facevo le elementari. Io in cucina imparavo a memoria le poesie e lui i copioni. Però non sapeva praticamente leggere, quindi noi figli lo aiutavamo. Alla fine, era diventato bravo e faceva tutto da solo».
Tanta commedia sexy.
«Però diceva a mamma che guardava e non toccava. Una volta venne a trovarlo Carmen Russo. Giovane e bellissima. Sotto casa si creò la fila, volevano salire tutti».
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Che padre è stato?
«Fantastico. Giocava con noi, scherzava sempre. La sua forza è che anche dopo il successo era rimasto lo stesso. Durante le pause tra un set e l’altro mangiava insieme alle maestranze, ai tecnici, gli elettricisti. Io stesso non mi vantavo mai, non dicevo a nessuno che ero il figlio di Bombolo. Lui ci diceva “se volete vivere felici, non guardate avanti ma guardate chi sta dietro di voi”. Alla fine, a scuola scoprirono di chi ero figlio. E nel peggiore dei modi».

Racconti.
«Facevo le superiori. C’era una riunione con genitori, insegnanti e studenti. Di solito di queste cose se ne occupava mamma, ma quella volta volle venire lui. Una scuola pubblica anni Ottanta, un po’ cadente, con le pareti imbrattate di disegni scurrili. Ecco, noi arrivammo in ritardo, papà aprì la porta: tutti in silenzio, seduti. E lui: “Ammazza quanti c***i dentro a ‘sta classe”. Panico. Poi qualcuno esclamo “a’ Bombolo”, lo riconobbero e tutti giù a ridere».
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